"La persecuzione degli ebrei e i lager italiani"
di Roberto Roveda
Rastrellamenti, eccidi, internamenti
In prima battuta, la persecuzione antiebraica, fin dai primi giorni di settembre 1943, fu attuata dai reparti delle SS e della Gestapo presenti in Italia e coordinati da Theodor Dannecker, uno dei principali collaboratori di Himmler e Eichmann nell’esecuzione della cosiddetta “soluzione finale della questione ebraica”. Vi furono rastrellamenti, eccidi (il più efferato portò alla morte di 57 ebrei nella zona del Lago Maggiore) e soprattutto vi fu la deportazione ad Auschwitz di 1023 ebrei arrestati a Roma il 16 ottobre. Un altro convoglio di deportati parti per Auschwitz da Firenze il 9 novembre, mentre un terzo convoglio di ebrei radunati nel carcere di San Vittore partì nel dicembre da Milano ( 21 Il binario della memoria). In molti casi, le forze di polizia, i carabinieri che non avevano scelto la fedeltà alla monarchia e le milizie fasciste
affiancarono i tedeschi nelle operazioni antiebraiche e durante i mesi finali del 1943 le autorità fasciste misero a punto la persecuzione “in proprio” nei confronti degli ebrei. Il 14 novembre 1943, l’assemblea del nuovo Partito fascista repubblicano approvò a Verona un manifesto programmatico che è considerato l’atto costitutivo della Repubblica Sociale Italiana. Al punto 7 si stabiliva che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Questa dichiarazione di principio trovo immediata applicazione il 30 novembre quando il ministro dell’Interno della RSI Buffarini Guidi diramò l’Ordine di polizia n. 5 in cui si stabiliva:
«1. Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento.
[…]
2. Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia. Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.»
In pratica, dal 1° dicembre 1943 i questori cominciarono a programmare le operazioni di arresto degli ebrei da parte di polizia e carabinieri. I prefetti, ora denominati capi delle province della RSI, avviarono l’allestimento di campi d’internamento provinciali dove riunire gli ebrei in attesa del loro trasferimento in campi di concentramento. L’obiettivo finale era la deportazione. I campi provinciali nei territori della RSI furono ben 29, allestiti in caserme, carceri, ville, case di riposo e addirittura nelle sinagoghe, come avvenne a Ferrara.
I lager italiani
Sebbene manchino documenti ufficiali in proposito, le autorità tedesche e della Repubblica sociale collaborarono alla “soluzione” della “questione ebraica”. In pratica, gli italiani provvedevano a riempire i campi; i tedeschi, coordinati dal comando delle SS di stanza a Verona, li svuotavano deportando i prigionieri nei loro lager. Per rendere più efficiente il meccanismo, a dicembre si cominciò ad allestire anche un vero e proprio campo di concentramento per imprigionare gli ebrei in attesa di formare convogli ferroviari numericamente consistenti da inviare in Germania.
Nacque così il campo di Fossoli, presso Carpi in provincia di Modena, un lager gestito per i primi mesi dalle autorità italiane e dal febbraio 1944 dal comando delle SS di Verona. Fossoli venne quindi a tutti gli effetti inserito nel sistema concentrazionario nazista, quale principale campo deputato alla deportazione dall’Italia verso i Lager del Reich e acquisì la denominazione di Polizei-und Durchgangslager Fossoli (Campo di Polizia e Transito di Fossoli). Da qui, fino all’agosto 1944 partirono i principali convogli diretti in Germania. Da Fossoli furono deportati 2844 ebrei, tra cui Primo Levi. Di questi solo uno su dieci e sopravvissuto.
Nell’agosto del 1944, in seguito all’avanzata verso nord degli Alleati, Fossoli fu sostituito nelle sue funzioni da un nuovo campo allestito dai tedeschi a Bolzano, nel rione di Gries. Il lager di Bolzano-Gries rimase in funzione fino alla fine della guerra e qui gli ebrei divisero il loro destino con oppositori politici al nazifascismo, zingari (rom e sinti) e testimoni di Geova. Le deportazioni dal campo di Bolzano verso la Germania durarono fino a che nel dicembre 1944 la linea ferroviaria per il Brennero non fu bloccata dai bombardamenti. A quel punto a Bolzano-Gries rimasero migliaia di persone, in condizioni disperate per il sovraffollamento e le durissime condizioni di vita. Il lager di Bolzano-Gries mantenne le sue funzioni concentrazionarie fino all’aprile 1945, quando il comando tedesco del campo trattò la resa con la Croce Rossa Internazionale e liberò i prigionieri in cambio di un salvacondotto.
Come si viveva nei campi italiani
Nei lager italiani le condizioni di vita dei prigionieri erano sicuramente meno disumane che in quelli del Reich. A Fossoli, almeno fino a che il campo fu controllato dalle autorita italiane, la situazione era discreta: gli ebrei mantenevano i loro abiti civili, potevano comunicare con l’esterno per lettera e ricevere visite. Le famiglie non venivano divise e i prigionieri non dovevano svolgere lavori. A loro toccava cucinare e mantenere in ordine e pulito il campo e le baracche. Certo vi erano problemi di sovraffollamento, i servizi igienici erano scarsi e il freddo era pungente dato che mancava la legna e si bruciava la paglia. Vi era però l’illusione di essere in un campo di prigionia come altri, un’illusione perche Fossoli era l’anticamera della deportazione, la stazione di partenza per Auschwitz. Le condizioni di vita nei lager italiani peggiorarono quando la loro gestione passò in mano tedesca. Fossoli e piu ancora Bolzano-Gries (dove gli ebrei erano costretti a portare cucito sugli abiti il triangolo giallo che li distingueva dagli altri prigionieri) divennero molto simili ai loro corrispettivi nel Reich, come scrive Liliana Picciotto, storica della Shoah, a proposito del lager bolzanino: «Nel campo vigeva una ferrea disciplina e la vita dei detenuti era scandita dal rituale comune a tutti i campi di concentramento: lungo appello alle 5 del mattino sotto la pioggia o la neve, scelta dei gruppi di lavoro; distribuzione del primo pasto. Nelle camerate i letti erano a castello, con materassi costituiti da sacchi ripieni di trucioli di legno che, con il calore delle persone, favorivano lo sviluppo di pidocchi: i prigionieri ricordano che il prurito incessante procurava piaghe molto dolorose. Un’altra fonte di disagio era il freddo intenso accompagnato da gelide correnti d’aria: chi non aveva abiti di ricambio, doveva lavare quelli già indossati e rimanere nudo ad aspettare che si asciugassero esponendosi a frequenti bronchiti. Su tutto dominava comunque il terrore che incutevano gli ucraini, padroni assoluti del bloccoprigioni, e le sorveglianti del blocco femminile. I prigionieri erano costantemente oggetto di percosse, frustate e violenze gratuite, né mancarono uccisioni di prigionieri inermi per futili motivi. Anche i tentativi di fuga venivano duramente puniti: un “politico” ripreso e ucciso fu lasciato nella piazza del campo per tutta la giornata a scopo dimostrativo; i prigionieri, inclusi i bambini, furono costretti ad un’adunata di parecchie ore intorno al cadavere.»
tratto da "La persecuzione degli ebrei e i lager italiani" di Roberto Roveda in Per la storia mail, n. 66, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori
di Roberto Roveda
Rastrellamenti, eccidi, internamenti
In prima battuta, la persecuzione antiebraica, fin dai primi giorni di settembre 1943, fu attuata dai reparti delle SS e della Gestapo presenti in Italia e coordinati da Theodor Dannecker, uno dei principali collaboratori di Himmler e Eichmann nell’esecuzione della cosiddetta “soluzione finale della questione ebraica”. Vi furono rastrellamenti, eccidi (il più efferato portò alla morte di 57 ebrei nella zona del Lago Maggiore) e soprattutto vi fu la deportazione ad Auschwitz di 1023 ebrei arrestati a Roma il 16 ottobre. Un altro convoglio di deportati parti per Auschwitz da Firenze il 9 novembre, mentre un terzo convoglio di ebrei radunati nel carcere di San Vittore partì nel dicembre da Milano ( 21 Il binario della memoria). In molti casi, le forze di polizia, i carabinieri che non avevano scelto la fedeltà alla monarchia e le milizie fasciste
affiancarono i tedeschi nelle operazioni antiebraiche e durante i mesi finali del 1943 le autorità fasciste misero a punto la persecuzione “in proprio” nei confronti degli ebrei. Il 14 novembre 1943, l’assemblea del nuovo Partito fascista repubblicano approvò a Verona un manifesto programmatico che è considerato l’atto costitutivo della Repubblica Sociale Italiana. Al punto 7 si stabiliva che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Questa dichiarazione di principio trovo immediata applicazione il 30 novembre quando il ministro dell’Interno della RSI Buffarini Guidi diramò l’Ordine di polizia n. 5 in cui si stabiliva:
«1. Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento.
[…]
2. Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia. Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.»
In pratica, dal 1° dicembre 1943 i questori cominciarono a programmare le operazioni di arresto degli ebrei da parte di polizia e carabinieri. I prefetti, ora denominati capi delle province della RSI, avviarono l’allestimento di campi d’internamento provinciali dove riunire gli ebrei in attesa del loro trasferimento in campi di concentramento. L’obiettivo finale era la deportazione. I campi provinciali nei territori della RSI furono ben 29, allestiti in caserme, carceri, ville, case di riposo e addirittura nelle sinagoghe, come avvenne a Ferrara.
I lager italiani
Sebbene manchino documenti ufficiali in proposito, le autorità tedesche e della Repubblica sociale collaborarono alla “soluzione” della “questione ebraica”. In pratica, gli italiani provvedevano a riempire i campi; i tedeschi, coordinati dal comando delle SS di stanza a Verona, li svuotavano deportando i prigionieri nei loro lager. Per rendere più efficiente il meccanismo, a dicembre si cominciò ad allestire anche un vero e proprio campo di concentramento per imprigionare gli ebrei in attesa di formare convogli ferroviari numericamente consistenti da inviare in Germania.
Nacque così il campo di Fossoli, presso Carpi in provincia di Modena, un lager gestito per i primi mesi dalle autorità italiane e dal febbraio 1944 dal comando delle SS di Verona. Fossoli venne quindi a tutti gli effetti inserito nel sistema concentrazionario nazista, quale principale campo deputato alla deportazione dall’Italia verso i Lager del Reich e acquisì la denominazione di Polizei-und Durchgangslager Fossoli (Campo di Polizia e Transito di Fossoli). Da qui, fino all’agosto 1944 partirono i principali convogli diretti in Germania. Da Fossoli furono deportati 2844 ebrei, tra cui Primo Levi. Di questi solo uno su dieci e sopravvissuto.
Nell’agosto del 1944, in seguito all’avanzata verso nord degli Alleati, Fossoli fu sostituito nelle sue funzioni da un nuovo campo allestito dai tedeschi a Bolzano, nel rione di Gries. Il lager di Bolzano-Gries rimase in funzione fino alla fine della guerra e qui gli ebrei divisero il loro destino con oppositori politici al nazifascismo, zingari (rom e sinti) e testimoni di Geova. Le deportazioni dal campo di Bolzano verso la Germania durarono fino a che nel dicembre 1944 la linea ferroviaria per il Brennero non fu bloccata dai bombardamenti. A quel punto a Bolzano-Gries rimasero migliaia di persone, in condizioni disperate per il sovraffollamento e le durissime condizioni di vita. Il lager di Bolzano-Gries mantenne le sue funzioni concentrazionarie fino all’aprile 1945, quando il comando tedesco del campo trattò la resa con la Croce Rossa Internazionale e liberò i prigionieri in cambio di un salvacondotto.
Come si viveva nei campi italiani
Nei lager italiani le condizioni di vita dei prigionieri erano sicuramente meno disumane che in quelli del Reich. A Fossoli, almeno fino a che il campo fu controllato dalle autorita italiane, la situazione era discreta: gli ebrei mantenevano i loro abiti civili, potevano comunicare con l’esterno per lettera e ricevere visite. Le famiglie non venivano divise e i prigionieri non dovevano svolgere lavori. A loro toccava cucinare e mantenere in ordine e pulito il campo e le baracche. Certo vi erano problemi di sovraffollamento, i servizi igienici erano scarsi e il freddo era pungente dato che mancava la legna e si bruciava la paglia. Vi era però l’illusione di essere in un campo di prigionia come altri, un’illusione perche Fossoli era l’anticamera della deportazione, la stazione di partenza per Auschwitz. Le condizioni di vita nei lager italiani peggiorarono quando la loro gestione passò in mano tedesca. Fossoli e piu ancora Bolzano-Gries (dove gli ebrei erano costretti a portare cucito sugli abiti il triangolo giallo che li distingueva dagli altri prigionieri) divennero molto simili ai loro corrispettivi nel Reich, come scrive Liliana Picciotto, storica della Shoah, a proposito del lager bolzanino: «Nel campo vigeva una ferrea disciplina e la vita dei detenuti era scandita dal rituale comune a tutti i campi di concentramento: lungo appello alle 5 del mattino sotto la pioggia o la neve, scelta dei gruppi di lavoro; distribuzione del primo pasto. Nelle camerate i letti erano a castello, con materassi costituiti da sacchi ripieni di trucioli di legno che, con il calore delle persone, favorivano lo sviluppo di pidocchi: i prigionieri ricordano che il prurito incessante procurava piaghe molto dolorose. Un’altra fonte di disagio era il freddo intenso accompagnato da gelide correnti d’aria: chi non aveva abiti di ricambio, doveva lavare quelli già indossati e rimanere nudo ad aspettare che si asciugassero esponendosi a frequenti bronchiti. Su tutto dominava comunque il terrore che incutevano gli ucraini, padroni assoluti del bloccoprigioni, e le sorveglianti del blocco femminile. I prigionieri erano costantemente oggetto di percosse, frustate e violenze gratuite, né mancarono uccisioni di prigionieri inermi per futili motivi. Anche i tentativi di fuga venivano duramente puniti: un “politico” ripreso e ucciso fu lasciato nella piazza del campo per tutta la giornata a scopo dimostrativo; i prigionieri, inclusi i bambini, furono costretti ad un’adunata di parecchie ore intorno al cadavere.»
tratto da "La persecuzione degli ebrei e i lager italiani" di Roberto Roveda in Per la storia mail, n. 66, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori